Wednesday 17 July 2013

la classe operaia

UN BLOCCO SOCIALE CONTRO IL REGIME DEI BANCHIERI

La crisi odierna è inequivocabilmente dovuta a fenomeni di sovrapproduzione e sottoconsumo, in sostanza deriva da una restrizione dei mercati che è un effetto della variazione della morfologia sociale. L’enorme rigonfiamento della massa proletarizzata, con la riduzione di gran parte dei ceti medi alla condizione salariata, significa che non ci sono abbastanza compratori per le merci: il proletariato non può ricomprare tutte le merci che esso stesso ha prodotto. Ma ciò rappresenta un’antinomia del capitalismo, dato che non può esistere una società composta esclusivamente da borghesi e proletari.
La razione di miseria obbligatoria imposta a paesi come Portogallo, Grecia, Italia, Spagna e progressivamente a tutti i popoli europei, non basterà a fermare la caduta di rendimento del capitale finanziario, per cui serviranno altre manovre finanziarie che spingeranno sempre di più verso una condizione di insopportabilità dei sacrifici imposti ai proletari. Ormai il capitalismo non ha più nulla con cui tacitare la protesta sociale, anzi, per sopravvivere è costretto ad estorcere sempre di più e in dosi sempre maggiori.
Se Obama è costretto a raddoppiare i fondi sociali di assistenza con cui vengono finanziati sottobanco i grandi supermercati dei distretti popolari al fine di non fare esplodere rivolte, se in Europa si procede all’abolizione di ogni copertura di welfare (pensioni, sanità, scuola, ecc.), se neppure uno solo dei grandi economisti borghesi è stato in grado di prospettare un modo per uscire dalla crisi e stabilizzare l’economia, tutto questo procedere verso il disfacimento totale del capitalismo ha una sua ragione d’essere ed è l’irrazionalità del capitalismo rispetto alle ragioni dell’intera umanità.
Oggi la miseria obbligatoria imposta dal proconsole della BCE per l’Italia, Mario Monti, al solo fine di garantire il pagamento degli interessi del debito pubblico italiano al capitale finanziario internazionale può valere qualche settimana di ripresa dei titoli italiani. Più del 97% di questi titoli sono incettati dalle banche che esigono i pagamenti, pena il default: sono le grandi banche mondiali, a cui la BCE e le banche italiane sono consociate. Di ripresa nemmeno l’ombra, anzi prosegue la liquidazione sistematica dell’industria e del piccolo commercio. La crisi abbatte chi non è abbastanza forte da resisterle: si contano già 60-70 mila piccoli esercizi commerciali chiusi con relativo numero di disoccupati, per lo più clandestini, dato che erano clandestini anche come lavoratori. Questa ecatombe forza il mercato in direzione dei grandi gruppi commerciali, cioè dei grandi supermercati nei quali i prezzi sono stabiliti nell’ambito dei commerci internazionali. Ci avviamo verso un commercio con forti connotazioni autocratiche, verso cui i consumatori non dispongono di alcun mezzo di influenza e di contrattazione.
Al momento i grandi centri commerciali mantengono i prezzi al di sotto di quelli del piccolo commercio, fa parte della strategia per liquidare quest’ultimo e la quantità di merci vendute assicura ai grandi gruppi margini soddisfacenti di profitto, dato anche che possono servirsi di lavoro precario a basso costo. Quando essi avranno imposto condizioni di monopolio, allora potranno esercitare tutta la loro forza per spremere i consumatori.
Il piccolo commercio è stata una delle attività fondamentali della piccola borghesia urbana. Le sue attuali condizioni di reddito non sono dissimili da quelle dei proletari. Ma molta della sua sopravvivenza dipende dall’evasione fiscale sistematica, da essa concepita come lotta di sopravvivenza contro lo Stato e la concorrenza. Essa è oggi un rimasuglio di ciò che era quando il fascismo la mobilitò contro il movimento operaio.
Crollata l’illusione berlusconiana in cui essa si riconosceva completamente, oggi la piccola borghesia urbana si trova sul baratro della sua scomparsa come ceto sociale. Il capitale finanziario la sacrifica per acquisire il potere enorme di monopolizzare i commerci e utilizzarlo come forma di controllo e pressione sociale. E’ noto che i capitali dei grandi gruppi commerciali sono consociazioni internazionali gestite dalle banche.
E’ evidente che per gli ultimi residui della piccola borghesia urbana e commerciale le prospettive future sono uno status di proletarizzazione, disoccupazione e precarietà. Ma bisogna stare attenti poiché è proprio da questi ambienti sociali che stanno riemergendo le tesi complottiste, l’antisemitismo di ritorno, il razzismo contro gli extra-comunitari.
Di fronte alla proletarizzazione forzata della piccola borghesia urbana, il proletariato non può più combattere con gli strumenti, ormai anacronistici, della democrazia parlamentare borghese, un nemico di classe che ha finalmente gettato la maschera, uscendo allo scoperto e ponendosi direttamente al vertice di Stati come Italia e Grecia.
Un’analisi della situazione che sia attendibile, onesta e coerente, non può non generare una presa di posizione ferma ed intransigente di fronte all’inasprimento della crisi e alle soluzioni “lacrime e sangue” adottate dai governi in un quadro capitalistico. Governi che non sono più condizionati in modo occulto e latente, come succedeva all’interno dei precedenti scenari parlamentari, da lobby che fanno capo alle grandi banche d’affari e all’alta finanza, ma sono un’emanazione diretta e palese del potere capitalistico, poiché al vertice degli Stati, in Grecia e in Italia, si sono insediati ufficialmente dei regimi guidati da tecnocrati e alti funzionari del sistema bancario e finanziario internazionale.
Su questo punto non si può non concordare, a meno che non si voglia negare l’evidenza.
In un quadro di crescenti ingiustizie e diseguaglianze sociali, è inevitabile che le proteste, frutto della disperazione dilagante, non saranno più facilmente gestibili con gli strumenti tipici della legalità costituzionale e della democrazia liberale borghese, e da semplici movimenti di indignazione e contestazione pacifica e non violenta, potranno assumere la forma delle rivolte o dei tumulti di massa, ovvero una veste insurrezionale.
Pertanto, serve la formazione di un blocco sociale e popolare, di impronta classista, che sia in grado di esercitare un ruolo antagonista, intransigente e deciso, contro il regime dei banchieri, che è (per l’appunto) un’emanazione diretta e palese, persino dichiarata, di un blocco economico molto agguerrito che fa capo agli affari (di classe) del sistema bancario e dell’alta finanza internazionale, che sono evidentemente contrapposti in maniera irriducibile agli interessi del mondo del lavoro produttivo e salariato, precisamente a quelli delle classi operaie e, più in generale, delle masse proletarizzate.
Ma come e con quale durata temporale si potrebbe conseguire un simile obiettivo? E con quali metodi di lotta è possibile, oltre che necessario, agire per concretizzare tale progetto? Ed è un traguardo di breve termine, o di medio e lungo periodo? Sempre che sia realizzabile. Inoltre, ammesso che lo sia, il processo dovrà e potrà svilupparsi dal basso, quindi compiersi in modo spontaneo ed auto-organizzato, o dovrà essere diretto dall’alto, cioè da un soggetto politico che si configuri come avanguardia rivoluzionaria?
A tutti questi interrogativi, che non sono affatto accademici, astrusi o peregrini, bensì estremamente pratici, occorrerebbe dare una risposta. Una risposta che eventualmente può giungere solo dal basso, ovvero dal magma ribollente delle lotte sociali e materiali.
Lucio Garofalo

LE REAZIONI DEI PADRONI, FRA ART. 18 E PRECARIATO DIFFUSO

Il mondo politico-economico si sta interrogando, in questi mesi, sulla riforma del mercato del lavoro per rendere più competitivo il paese. Queste parole e queste giustificazioni sono state alla base di tutte le recenti riforme del lavoro di questo ventennio, riforme che hanno portato l’Italia ad essere il paese che è cresciuto di meno al mondo e quello col più alto grado di precarietà d’Europa.
Nella retorica padronale, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori consentirebbe all’impresa di adattarsi meglio alle contingenze economiche, rendendo più veloce lo snellimento delle maestranze nei periodi di recessione. Nella retorica filo-padronale dei falsi amici dei lavoratori invece, essendo cambiate le condizioni di vita e di lavoro nelle società, non ha più senso inchiodare un lavoratore per cinquant’anni allo stesso posto di lavoro, e la possibilità di cambiare spesso attività sarebbero così incentivate, e sarebbero uno stimolo e un traguardo anche per il lavoratore stesso. Insomma, una flessibilità buona da opporre al concetto di precarietà cattivo. Vediamo brevemente come questo modo di impostare il discorso è assolutamente falso.
1) I datori di lavoro sono già liberi di licenziare a proprio piacimento i lavoratori nei periodi di recessione economica. Premesso che la tutela contro il licenziamento illegittimo esiste in tutti i paesi d’Europa, l’Italia è ad oggi il paese europeo più flessibile e con meno vincoli al licenziamento. Secondo gli indici OCSE (strictness of employment protection), liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano che per un suo concorrente europeo. Al capo opposto c’è la Germania, tanto osannata di questi tempi per la sua famosa “produttività” e crescita economica, che evidentemente non si basa sulla facilità di licenziare i lavoratori.
Oltre a questo, in Italia è talmente facile, e sin da subito previsto, il licenziamento per motivi economici, che è l’unico paese ad avere come protezione sociale la Cassa Integrazione Guadagni. E cioè lo Stato, sapendo bene che il licenziamento per il lavoratore può essere sempre possibile, ha previsto sin dagli anni settanta un sistema di sostegno al reddito per il lavoratore licenziato per crisi aziendale, in attesa di essere richiamato dall’azienda. La truffa, semmai, è che il lavoratore messo in cassa integrazione non viene conteggiato come “disoccupato”, perché formalmente non licenziato, anche se nei fatti quelli che tornano a lavorare nell’azienda dopo il periodo di cassa integrazione sono veramente pochi. Questa truffa si riversa anche nelle statistiche sulla disoccupazione, per cui sembra sempre che l’Italia sia nella media europea, quando nel resto d’Europa, non esistendo l’istituto della Cassa Integrazione, i lavoratori che nel nostro paese vengono conteggiati come occupati ma in CIG, sono contati semplicemente come disoccupati.
Per chiudere, poi, bisognerebbe anche che qualcuno ci spieghi il processo per cui, se un imprenditore può licenziare più agevolmente, poi l’economia dovrebbe tornare a crescere. E’ una visione del mondo che sta solamente nella mente di quegli economisti liberisti. Licenziare più agevolmente significa solamente contribuire a deprimere ulteriormente i consumi, dunque a produrre e investire di meno nella produzione, quindi ad assumere meno lavoratori. Sarebbe dunque una norma anti-economica e recessiva da evitare come la peste.
2) L’abolizione dell’articolo 18 converrebbe anche ai lavoratori stessi, rendendo più flessibile e più agevole il cambio da lavoro a lavoro. Questa è un’altra palese idiozia. Mentre il datore di lavoro è subordinato ad una norma che gli impedisce di licenziare senza giustificato motivo (cosa che però non è così, come abbiamo visto), nulla vieta al lavoratore di licenziarsi e di cambiare lavoro ogni qualvolta lo desideri. Insomma, l’articolo 18 obbliga il padrone ma non il lavoratore, che non ha altro obbligo nei confronti del datore di lavoro se non quello di preavvertirlo qualche giorno prima della volontà di porre fine al suo rapporto di lavoro. Dunque il lavoratore è già tutelato ampiamente rispetto alla sua presunta volontà di cambiare lavoro anche ogni settimana, se così volesse.
Detto questo, poi, stiamo sempre parlando di ipotesi tecniche; nella realtà, chi ha un lavoro se lo tiene stretto tutta la vita, a meno di non trovarne uno migliore. E questo il lavoratore è liberissimo di farlo: sono i padroni che non stanno garantendo il lavoro, non i lavoratori che non vogliono adattarsi alla flessibilità.
Fatta dunque questa premessa sull’assurdità di assegnare all’abolizione dell’articolo 18 un qualsiasi compito di risollevamento delle sorti economiche dell’Italia, veniamo all’altro grande dibattito molto in voga di questi tempi, e cioè quello della riforma del mercato del lavoro in vista di un superamento della precarietà. Distinguere fra le ipotesi Ichino, Boeri, Garibaldi, Sacconi o Madia non ha assolutamente senso, visto che tutte partono da un concetto comune: abolire le 46 tipologie contrattuali precarizzanti attuali, abolire il contratto a tempo indeterminato standard, e creare un unico contratto che per i primi tre anni funzioni come contratto precario d’apprendistato, per poi trasformarsi automaticamente in contratto a tempo indeterminato. Anche qui, siamo in presenza del teatro dell’assurdo.
1) Tutti i contratti precarizzanti, in teoria, funzionano così. E infatti, le varie tipologie contrattuali a tempo determinato non prevedono un rinnovo continuo all’infinito, ma quasi tutte obbligano il datore di lavoro ad assumere a tempo indeterminato dopo un certo numero di rinnovi. Il problema è che, raggiunto quel certo numero di rinnovi, l’imprenditore non rinnova più il contratto al lavoratore ma chiama un altro lavoratore al suo posto. Così rinnova il tempo a disposizione per poter sfruttare il lavoratore a tempo determinato. Cosa cambierebbe con le ipotesi di riforma proposte in questi giorni? Assolutamente nulla, visto che il datore di lavoro continuerebbe a licenziare appena la legge gli obbliga di assumere stabilmente il lavoratore.
2) Detto questo, anche qui non si riesce a capire la ratio dei ragionamenti: secondo questi professoroni, il superamento della precarietà avverrebbe eliminando il contratto a tempo indeterminato e creando un unico grande contratto precario per tutti i lavoratori. A quel punto, se le riforme sin qui pensate avessero luogo, tutti i lavoratori italiani, nessuno escluso, entrerebbero nel mondo del lavoro con un contratto precario d’apprendistato. Bel modo di eliminare la precarietà.
Di passaggio, andrebbe anche ricordato che questa riforma assomiglia molto a quella che cercò di fare il governo francese nel 2006 con il contratto unico CPE (contratto di primo impiego). Riforma che è costata alla Francia mesi e mesi di mobilitazioni generali sindacali e studentesche, prontamente ritirata dal governo. Non avendo tale capacità mobilitante, né il senso della difesa dei propri diritti che hanno assorbito nel tempo i cittadini francesi, temiamo che se davvero una di queste proposte dovesse arrivare in parlamento incontrerebbe assai poca resistenza, visto che la metà dei proponenti viene dalle fila del Partito Democratico. Anche questo, è un po’ il segno dei tempi.
Dunque, in conclusione, il dibattito attorno alle eventuali riforme del mercato del lavoro attraversa tutto lo spettro possibile del liberismo economico e sociale. E’ tutto interno a ricette economiche da scuola di Chicago, a cui purtroppo contribuisce attivamente anche il partito che dovrebbe fare opposizione in parlamento. Anche su questo, conviene non lasciare il campo del dibattito unicamente all’opzione liberista, ribadendo con forza che non esiste nessuna flessibilità positiva, che il lavoro è un diritto e che chi nel tempo si è guadagnato, con le proprie lotte di classe, le presunte “garanzie” che in questi tempi stanno venendo meno, non è un nemico generazionale del precariato odierno. Non è togliendo i diritti a chi se li è conquistati che miglioreranno le condizioni dei precari, ma sarà solo la lotta per raggiungere e ampliare quei diritti che può farci uscire dal tunnel neoliberista odierno.
Militant

IL NODO DELLA CONCERTAZIONE

Assistiamo da più parti, e da diverso tempo, ad un attacco a tutto campo nei confronti della cosiddetta “concertazione”, cioè quell’insieme di relazioni fra parti sociali e governo per riformare determinati aspetti dell’economia e del mondo del lavoro. E’ un attacco diretto e ultimativo: le riunioni che il governo decide (unilateralmente) di svolgere con i sindacati vengono definite “riti fuori tempo e fuori bilancio”, con cui una parte, solitamente le parti sociali, cioè i sindacati, vorrebbe imporre ai governi di turno la loro visione del mondo e dei rapporti sociali.
Ecco alcune definizioni e opinioni dominanti oggi la retorica politica e mediatica, che descrivono quello che dovrebbe essere il mostro da abbattere, cioè la concertazione, che per troppi anni ha incatenato le sorti dell’Italia in un economia para-socialista e consociativa (nei media, queste caratteristiche divengono sinonimi):
..i sindacati vogliono concorrere alla definizione delle misure che il governo presenterà al parlamento..” “La concertazione è stata per molti anni il totem intoccabile della democrazia consociativa..” “Quando chiede la concertazione, un sindacato pretende per i propri soci più poteri di quanti ne abbia un cittadino qualunque, vuole essere..un contropotere, un passaggio obbligato..” “Se abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e accumulato un enorme debito pubblico, lo dobbiamo anche alla concertazione.
(dal Corriere della Sera e Repubblica del 4/01/12)
Ora, il problema della concertazione semmai è di tutt’altro spessore: per anni i sindacati, con la scusa della concertazione, si sono piegati ed hanno acconsentito alle peggiori riforme del mercato del lavoro in cambio di qualche privilegio e qualche riconoscimento sindacale. In più, hanno pensato di sostituire la lotta nei luoghi di lavoro, le lotte sindacali, col tentativo di raggiungere gli stessi miglioramenti sociali tramite tavoli permanenti con i governi, credendo davvero possibile raggiungere tramite il compromesso ciò che non riuscivano a raggiungere tramite la lotta. Abdicando di fatto alla conflittualità sociale per sedersi attorno ad un tavolo, convinti che i governi davvero prendessero in considerazioni le proposte solamente perché ragionate e discusse in un ambito istituzionale.
Quello che però è attaccato nei discorsi e nei ragionamenti odierni non è questo tipo di visione, ma proprio il fatto che il governo di turno dovrebbe discutere con le parti sociali le riforme – sociali, appunto – che interessano i lavoratori, dei quali i sindacati dovrebbero essere i rappresentanti. In un ottica democratico-liberale, infatti, la concertazione dovrebbe essere proprio uno dei punti fondamentali con il quale portare avanti le riforme sociali. La concertazione infatti non prevede conflitto sociale, e finchè il sindacato è attaccato al tavolo delle trattative i padroni sapranno benissimo che non si arrischierà a pericolose fughe in avanti. E’ da questo punto di vista che noi dovremmo chiedere la fine della concertazioneperché cioè anestetizza le lotte di classe. Se invece a chiedere la fine della concertazione sono proprio quegli esponenti della democrazia liberale che hanno tutto l’interesse a mantenerla, i conti non tornano più. La fine della concertazione infatti, in quest’ottica, diventerebbe fine del ruolo del sindacato nel concertare le riforme del mercato del lavoro. Premesso che non dovrebbe essere (solo) questo il ruolo del sindacato, nella visione liberale (e liberista, i due termini vanno sempre a braccetto e solo in Italia sono presenti due definizioni per uno stesso concetto) la soluzione sarebbe che il governo andasse spedito nelle sue riforme senza ascoltare alcuna parte sociale. Tranne, forse, la parte “sociale” dei padroni, e cioè la Confindustria.
E’ questo il livello del dibattito oggi presente in Italia nel campo delle riforme sociali: i sindacati, tramite la concertazione, hanno determinato il livello di debito pubblico italiano, proprio perché non hanno consentito le liberalizzazioni e le migliorie al mercato del lavoro, le sole che avrebbero potuto far crescere l’Italia e abbattere il debito pubblico. Di fronte a questa narrazione, che definire tossica è fargli un complimento, oggi come oggi rischiamo di rimanere disarmati. O difendiamo la concertazione come mediazione al ribasso ma pur sempre mediazione, o non ci esprimiamo al riguardo, lasciando così passare il concetto della fine della concertazione come ennesimo risultato positivo di questo governo, che sta spostando sempre più verso destra ogni qualsiasi discorso politico ed economico. A fronte di tutto questo, sarebbe importante non lasciare ai soli sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, e alle rappresentanze politiche formalmente di sinistra PD-IDV-SEL questo argomento, che invece dovrebbe interessarci e toccarci molto più di quanto non sembri.
Militant

IL VERO FINE DELLE TEORIE COMPLOTTISTE

Il “manuale” delle concezioni complottiste è il Mein Kampf di Hitler, nonché le opere di Alfred Rosenberg, l’ideologo ufficiale del nazional-socialismo. In particolare, il Mein Kampf rappresenta una sorta di “bibbia” contemporanea per i suoi epigoni. Senza correre il rischio di esagerare si potrebbe definire il Mein Kampf come il “testo sacro” dei sostenitori più fanatici del complottismo, il modello teorico e la principale fonte d’ispirazione a cui attingono le più assurde dietrologie esoteriche di matrice nazista o cripto-nazista. Ma lo stesso Hitler si ispirò a sua volta ad un libro intitolato L’ebreo internazionale, scritto da Henry Ford, il noto imprenditore americano. Nel Mein Kampf Hitler cita testualmente frasi deliranti tratte da questo libro che influenzò notevolmente l’ideologia antisemita alla base della propaganda hitleriana. Tutta la dottrina nazista era ossessionata dalla retorica incentrata sulla teoria esoterica del complotto giudaico per il dominio del mondo (gli Illuminati). La tesi della cospirazione giudaica discende dagli scritti di Rosenberg, il quale era convinto di rinvenire prove a favore delle sue idee nei famosi Protocolli di Sion. Non a caso Hitler (come gran parte dell’élite nazista) nutriva una passione viscerale per l’occultismo e l’esoterismo, l’astrologia e l’alchimia (gli stessi colori ufficiali del vessillo nazista sono i colori sacri dell’alchimia: nero, rosso e bianco), la magia e il mondo del paranormale. Ma al di là delle visioni mistiche e deliranti di Hitler e Rosenberg, il fascino delle ideologie esoteriche si spiega in virtù della loro ingenuità farisaica e semplicistica, del conservatorismo codino e forcaiolo, nella misura in cui offrono all’immaginario collettivo una sorta di comodo e rassicurante capro espiatorio identificabile in “cospiratori” che agiscono per corrompere e dominare il sistema, che siano gli Ebrei piuttosto che i massoni, o gli untori di manzoniana memoria.
In materia di complotti e trame segrete, la storia offre numerosi esempi di congiure di palazzo, tradimenti ed episodi cospirativi, dai tempi degli antichi imperatori romani, dall’assassinio ordito contro Giulio Cesare ai casi di regicidio più recenti, ai tentativi falliti contro lo stesso Hitler, ma le trame “oscure” del potere non sono riducibili a vicende che servono solo a mistificare la realtà delle cose, a banalizzare la narrazione storica sul potere. La cui natura è più articolata, estesa e complessa di quanto le farneticanti dietrologie esoteriche lascino supporre. Il potere vigente nel quadro capitalistico, si pensi alle grandi banche d’affari, alle multinazionali, alle famigerate agenzie di rating, alle società assicurative, e ai “mostruosi” comitati d’affari e di potere che fanno capo al capitale finanziario cosmopolita, al di là dei nomi delle singole soggettività, a prescindere da ogni comoda narrazione mistica o esoterica, è costituito da un’entità anonima estremamente complessa e articolata, difficilmente identificabile in una sola, “onnipotente” personalità, o in un blocco compatto di individui criminali e privi di scrupoli, ed è tantomeno rappresentabile come un’associazione segreta e cospirativa su scala mondiale, come si tende a fantasticare nell’immaginario collettivo.
Oggi, il fine ultimo di queste dietrologie è di camuffare o mistificare la reale natura delle crisi capitalistiche, e di questa crisi in particolare, per non scaricare le colpe sul sistema. Il quale, a seguire queste ipotesi fino in fondo, potrebbe funzionare benissimo se non fosse corrotto e sabotato da presunti cospiratori, ovvero da congiure giudaiche, piuttosto che massoniche, o di altra origine. Siamo ancora agli “untori” di Manzoni e simili congetture sono pericolosissime poiché distolgono l’attenzione dalle vere e irrisolvibili (almeno all’interno del quadro capitalistico) cause della crisi. Il capitale finanziario cosmopolita è un’entità anonima e impersonale. E’ vero che vi sono personaggi che fanno praticamente parte di quasi tutti i consigli d’amministrazione delle principali banche d’affari del mondo, e ciò può appunto ingannare il giudizio, ed è vero che le banche riescono in qualche modo ad imporre un indirizzo uniforme alla finanza globale, ma questo dato reale è più un prodotto dei complessi meccanismi che esse gestiscono e non possono cambiare, anziché il risultato di una cospirazione planetaria vera e propria. Non a caso, le banche per coordinarsi sono costrette a stipulare accordi su accordi, a condurre trattative estenuanti. Le banche hanno interessi comuni che gestiscono insieme, ma non funzionano come un centro cospirativo: ricordano invece una banda di ladri che si mettono d’accordo su chi derubare, ma poi ciascuno tenta di accaparrarsi la parte più cospicua del bottino. E nell’attuale crisi del capitale finanziario esse stesse provocano rimedi che finiscono per aggravare il male medesimo. Dunque, se è giusto parlare di capitale finanziario globale, considerando l’insieme dei fenomeni e le loro concatenazioni, non significa affatto che esista un disegno cospirativo unificato ed organico, come credeva Hitler. E come sostengono i suoi epigoni sparsi, di ieri e di oggi.
Il sottoscritto non nega l’esistenza del regime dei banchieri, in Italia e in Grecia, di tecnocrati quali Monti, Draghi e via discorrendo, che sono funzionari ed esecutori del capitale finanziario internazionale. Sin dal primo momento mi sono impegnato per denunciare pubblicamente, con vari articoli, la natura autoritaria e antidemocratica, golpista e criminale, di questi regimi politici. Nel contempo cerco di far capire che, malgrado il salto di qualità compiuto a livello politico-organizzativo dal capitale finanziario cosmopolita, un’entità anonima che si incarna ovviamente in alcune figure che fanno capo alle grandi banche d’affari, alla BCE, al FMI, alle agenzie di rating e così via, tuttavia ciò non mi impedisce di andare oltre questa elementare evidenza che è sotto gli occhi di tutti e che il sottoscritto non è così sciocco da negare, visto che esiste un regime dei banchieri che si è ufficialmente insediato al vertice delle gerarchie statali in Italia e in Grecia. Quello che fino a ieri era un potere “occulto” che agiva “dietro le quinte”, giusto per usare una terminologia cara ai fanatici dei complotti, oggi è uscito allo scoperto, perciò nessuno, tranne chi è cieco o in malafede, si azzarda a negarne l’esistenza. Eppure, la struttura del potere capitalistico è molto più vasta, articolata e profonda di quanto appaia e di quanto gli ottusi simpatizzanti o fautori delle dietrologie esoteriche vogliono farci credere. Ed è superfluo ripetere ancora quanto ho già precisato a proposito della complessità e della natura impersonale del capitalismo finanziario.
Il punto critico dell’analisi che bisogna elaborare, è la proletarizzazione massiva che porta ad un sottoconsumo sempre più esiguo, ovvero alla miseria di massa, ma questa è (per l’appunto) l’irreversibile conseguenza del dominio del capitale finanziario, che non equivale ad una congiura. Il problema è capire se di fronte all’insorgere della protesta di massa dei proletari, il complesso del capitale finanziario è o meno in grado di coordinarsi, oppure se una iniziativa forte del proletariato può accentuarne le divisioni e le contraddizioni interne. Se si trattasse di un centro cospirativo unitario e coeso la domanda non avrebbe senso e, per vincerlo, servirebbe allearsi con alcuni settori della borghesia. Conviene mettere in luce quella che è l’implicazione pratica più interessante e notevole dell’intero discorso, portando alle estreme conseguenze il sillogismo implicitamente contenuto nelle dietrologie occultiste: se il potere, nella fattispecie il capitale finanziario cosmopolita, fosse realmente una struttura compatta e monolitica, priva cioè di contraddizioni e divisioni interne, una sorta di centro cospirativo chiuso e settario, come pretendono di credere e farci credere i fautori delle concezioni complottiste, allora temo che questo tipo di potere sarebbe assolutamente invincibile ed inviolabile e non esisterebbero possibilità di salvezza, o di riscatto, per il genere umano. E’ questa la conseguenza finale, ovviamente implicita, che scaturisce dal ragionamento insito nelle concezioni complottiste oggi tanto in voga. Ed ecco svelato il loro “trucco”.
Lucio Garofalo

2012: QUALE SARA' LA GOCCIA CHE FARA' TRABOCCARE IL VASO?

Il 17 dicembre del 2010, in una cittadina della Tunisia rurale, Sidi Bouzid, un giovane ambulante si diede fuoco sotto la Prefettura in segno di protesta contro la miseria e i soprusi della polizia. Si chiamava Mohammed Bouazizi. Un gesto disperato ma fu la scintilla che incendiò la prateria. Come all'unisono milioni di cittadini si sollevarono, prima in Tunisia, poi in Egitto, in quasi tutti i paesi arabi. Regimi totalitari apparentemente inossidabili, tanto più perché sostenuti dall'Occidente, caddero come birilli —a conferma, avrebbe detto Mao, che sono le masse che cambiano davvero la storia. Anche in Italia, sotto i nostri occhi, si son tolti la vita diversi Mohammed Bouazizi.
L'altro ieri, primo gennaio, a Bari, un pensionato di 74 anni si è suicidato gettandosi dal balcone di casa. La ragione ce la spiega un quotidiano: «Avrebbe dovuto restituire cinquemila euro all'Inps, ma la paura di non farcela e di perdere anche la casa nella quale abitava, unica sua proprietà, l'ha divorato, sino a portarlo al suicidio. (...) L'anziano percepiva una pensione sociale di 450 euro e un'altra, per gli anni trascorsi all'estero, di 250 euro, complessivamente 700 euro al mese. Nei giorni scorsi ha ricevuto la lettera dell'Inps nella quale l'ente riferiva di avergli corrisposto indebitamente, per un errore di calcolo, cinquemila euro negli ultimi anni, denaro da restituire con rate di 50 euro al mese».
Non è il primo caso di suicidio causato da ingiustizia sociale. Ce ne sono stati altri soprattutto negli ultimi anni. La statistica non se ne occupa. Gli intellettuali nemmeno. I politici manco a parlarne. Questi casi sono socialmente troppo scandalosi per poterne parlare con la solita superficiale demagogia. Meglio tacere e far finta di niente.
Questo atteggiamento di indifferenza tuttavia, lo assume anche la stragrande maggioranza dei cittadini "normali". In cuor loro, almeno i tanti che questa crisi economica e sociale fa soffrire, sono toccati da queste notizie, di sicuro hanno sentimenti di empatia e di comprensione verso chi giunge a gesti tanto estremi. E però, alla fine, girano lo sguardo da un'altra parte, fanno finta di niente, continuano nel loro alienante tran tran.
Per cui doppia incazzatura. A quella triste per il suicidio di un proletario, almeno nei cuori delle persone sensibili, si aggiunge l'altra, la rabbia sorda per l'ignavia della gente. Ma com'è possibile che non si faccia come in Tunisia? Quanti altri Bouazizi ci vorranno affinché il popolo di ribelli? Quante altre goccie di sangue dovranno scorrere affinché si ritenga colma la misura?
In altri termini: quando la quantità si trasformerà in qualità?
Gli scienziati che analizzano i fenomeni fisici e i chimici saprebbero dare una risposta certa. Essi risponderebbero, per fare un esempio lampante che, date determinate condizioni e costanti di temperatura e pressione, l'acqua non può che bollire a cento gradi. Potrebbero dunque prevedere il momento esatto in cui il coperchio inizia a sobbalzare.
Non è così nella sfera sociale. Le variabili, le incognite, sono troppe e non calcolabili con esattezza. Allora tutto è lasciato al caso? No. Per quanto non ci sia una corrispondenza automatica tra causa ed effetto, anche la società ubbidisce a determinate leggi causali. Politicamente parlando: non è decisivo discettare sul "momento esatto", sul "quando" dell'esplosione sociale. In politica conta individuare la tendenza generale, la tendenza dominante o preponderante. E quindi, per chi vuole cambiare lo stato di cose esistente, conta scommettere, puntare sulla tendenza di fondo, agire affinché essa possa dispiegarsi pienamente.
E' una questione di rapporti di forza. Senza forza non si cambierà niente, e la massima espressione di forza non è l'azione minoritaria di questo o quel gruppo, fosse anche di pistoleros. La forza sociale al suo massimo grado è quella che solo grandi masse in movimento possono dispiegare.
Compito della "minoranze creative", delle "avanguardie" come si sarebbero detto un tempo, non è dunque tanto quello di scatenare artificialmente il conflitto, ma di attrezzarsi a dargli una direzione, uno sbocco politico.
Questo non vuol dire affatto starsene alla finestra. Possono presentarsi situazioni in cui occorre dare l'esempio, far sì che certe battaglie diventino esemplari e conducano alla vittoria, per quanto parziale. Tuttavia due sono i compiti fondamentali delle "minoranze creative". Il più importante, certamente, è raggiungere la necessaria massa critica per poter, al momento opportuno, orientare l'inevitabile sollevazione popolare. Ma questo obiettivo, a sua volta, dipende da un altro: possedere idee chiare sulle cose da fare per orientare la sollevazione, poiché è solo grazie a queste idee che è possibile innescare un processo virtuoso di raggruppamento di forze, convincere migliaia di cittadini all'impegno politico, a partire da quelli più sfruttati e oppressi.
Il lettore penserà, a questo punto, che ho dato a questo mio intervento un titolo "ingannevole" visto che non so dire quando il vaso traboccherà. Sono tuttavia certo che la temperatura sta aumentando e che il coperchio salterà. Per essere più preciso: penso che non manca molto ad un nuovo collasso finanziario ed economico, che andiamo verso un default combinato bancario e dei debiti sovrani. Penso che il luogo di questo collasso imminente sarà l'Europa e che l'epicentro sarà l'Italia. Il governo Monti sarà obbligato e prendere misure antipopolari ben più draconiane per salvare il sistema. Dovrà rastrellare una montagna di soldi, dovrà attuare una colossale rapina sociale.
Non sarà una goccia ma un flusso. La temperatura sociale salirà improvvisamente.Non è questione di anni, è questione di mesi.
Solo degli irresponsabili possono restare alla finestra. Solo dei miopi possono ancora giocare alla "politica di sinistra", continuando a fare a rimpiattino col Partito democratico, puntando tutto o quasi sull'ipotesi elettorale. Chi ha sale in zucca deve mollare l'ancora, avere il coraggio di lanciare l'allarme e di chiamare a raccolta, su unprogramma politico d'emergenza coloro che non hanno paura e che sentono che siamo alle porte di una svolta storica.
Per questo, tra l'incudine della confusione e del disincanto, e il martello della catastrofe storica che incombe, ritengo anch'io che vada dato un segnale. Che l'assemblea del 4-5 febbraio del Movimento Popolare di Liberazione possa esserlo.
Piemme, Sollevazione

I "MONTI BOYS"

L'Italia è finita «nelle migliori mani» (Pierferdinando Casini in versione salva-Italia), quelle del «genero ideale dei tedeschi», cioè della Merkel (Mario Monti, in versione penosamente autoironica). Un genero che non fa logorroiche conferenze stampa, ma «bagni di realtà» (Pierluigi Bersani in versione bagnino romagnolo), anche se «manca qualcosa per il sociale» (a smacchiare leopardi si diventa pignoli).
Ora si comprende la novembrina disperazione dei comici. Non tanto per la dipartita del capo-comico, il premier-barzellettiere che faceva ridere per molte cose ma di certo non per le sue barzellette, quanto l'arrivo dei Monti boys, attempati signori che in attesa di un qualche riciclaggio politico devono pure inventarsi qualcosa. E con loro non c'è gara. Non sappiamo come andrà con tassisti e avvocati, ma almeno l'esercizio della professione di comico è già liberalizzato.
Ad ogni buon conto, anche l'ex capo del governo non ha voluto essere da meno: «Mie dimissioni solo per senso dello Stato», l'originale e commovente risposta al Wall Street Journal che si è permesso di scrivere quel che anche i sassi già sapevano sul ruolo della Merkel nel suo licenziamento. Un tempo, di fronte al disvelamento di un siffatto segreto di Pulcinella, avremmo avuto fuoco e fiamme. Oggi, il Buffone ha chiesto a Capezzone di chiedere una smentita al Quirinale, che ha chiesto a Berlino di approvare la smentita. E per certe cose l'Europa funziona... Tempi grami dunque per il Pdl, che deve stare al gioco, lasciando a gridare solo il Giornale: «E' stata la Culona», titolo del 31 dicembre.
Ma torniamo ai Monti boys. Se per Enrico Letta, il nipote dello zio, «nell'Europa unita non esistono ingerenze» - benissimo, provi lui a scegliere il prossimo cancelliere tedesco... - il culmine dell'esaltazione viene naturalmente raggiunto da Eugenio Scalfari. Leggiamo il suo editoriale su la Repubblica del 31 dicembre: «Questo governo è stato un'innovazione per il fatto stesso di esistere e di esser nato con queste modalità peraltro perfettamente costituzionali. Questa innovazione non è una rondine pellegrina ma un decisivo aggiornamento della democrazia parlamentare. Questo è un evento positivo con il quale la dolorosa e sofferta emergenza ci compensa».
Questo governo è un'innovazione, già ma di che tipo? Scalfari non si nasconde, e precisa che la novità consiste nelle modalità con cui è nato, che rappresentano un decisivo aggiornamento della democrazia parlamentare. Oh bella! Che si cerchi di giustificare la correttezza formale delle mosse che hanno portato al golpe bianco di novembre, si può comprendere. Che addirittura si definisca il commissariamento del Paese un decisivo aggiornamento della democrazia parlamentare, sembrerebbe davvero un po' troppo, ma evidentemente così non è per il vecchio capo di Repubblica, a dimostrazione di dove può arrivare l'antiberlusconismo di marca scalfariana. Un antiberlusconismo che è egemone nella sinistra.
Ecco l'illuminante fraseggio di Nichi Vendola (intervista a Tgcom24 del 27 dicembre): «Il Pd ha dimostrato una grande generosità sostenendo il governo Monti nonostante i sondaggi riconoscessero la vittoria alla coalizione del patto di Vasto». «In ogni caso noi non romperemo con Bersani per questo atto di generosità, perché la cosa più importante è mantenere la prospettiva. Noi non siamo il governo Monti e vogliamo chiudere la stagione del berlusconismo con una svolta a sinistra. Monti faccia la sua opera nel tempo più breve possibile e poi la parola passi alla democrazia».
Dunque, il Pd è generoso (con chi?). Noi non romperemo per questo (si può mai rompere per un atto di generosità?). Monti faccia la sua opera (se è per questo sta già facendo...) e poi la parola passi alla democrazia (cioè al voto).
Questo ciarlatano riconosce dunque nel governo Monti una sospensione della democrazia parlamentare, ma anziché annunciare una dura opposizione - ci mancherebbe! - chiede solo di fare presto. Da notare il "faccia la sua opera", a sancire il via libera al massacro sociale in atto. Del resto, per Vendola, quello attuale «E' un governo costruito reclutando eccellenze» e tanto basta.
I Monti boys sono dunque di vario tipo. Ci sono i fanatici (Casini, Fini, Rutelli, Veltroni, Letta junior, Scalfari) interessati ad utilizzare l'uomo della Trilateral come testa di ponte per i loro disegni politici; ci sono i fedeli sostenitori alla Bersani, con la frasetta pronta su qualcosina da migliorare, ma sempre sull'attenti quando c'è da votare; ci sono i finti dissidenti («oppositori», anche se finti, sarebbe davvero una parola troppo grossa) alla Vendola.
Tre diverse tipologie, per tre diverse esigenze politiche, ma tutte e tre convergenti su un punto: Monti deve svolgere il suo lavoro. Che poi sia un lavoro sporco, assai simile allo strozzinaggio, questo sembra non interessare a nessuno.
Del resto questo è il Paese il cui presidente della repubblica, che appena possibile faranno santo, si è rivolto ieri sera agli italiani citando come esempio del «bene comune» le missioni militari all'estero. Niente di strano per l'uomo che ha voluto la partecipazione all'aggressione alla Libia, ma c'è ancora qualcuno che crede che tutti i mali dell'Italia fossero targati Berlusconi?

LA REALTA' NON E' MAI COME SEMBRA

E’ assolutamente capziosa e fuorviante quella congettura di origine fascistoide, oggi estremamente diffusa, secondo cui l’attuale crisi economica sarebbe il risultato di occulte trame politico-finanziarie internazionali, per l’esattezza sarebbe il frutto di un complotto “demo-plutocratico” ed “ebreo-massonico” ordito su scala mondiale. E’ questa un’interpretazione di marca nazi-fascista attualmente molto in voga, in quanto è accreditata non solo presso quei settori che fanno tradizionalmente capo alla destra estrema e radicale, ma incontra vasti consensi e adesioni anche presso frange vagamente riconducibili all’area multiforme ed eterogenea dell’antagonismo ideologico politico che abitualmente viene apostrofato in modo dispregiativo come “rosso-bruno”.
Capita di avere frequenti scambi di opinione con presunti o sedicenti compagni, i quali sono realmente convinti che la crisi economica sarebbe stata causata intenzionalmente dai padroni delle grandi banche e dai signori dell’alta finanza, esponenti di comitati d’affari e di potere: per intenderci, si tratta di mostruose società bancarie e finanziarie come la famigerata Goldman Sachs, il turpe Club Bildeberg, l’abominevole Commissione Trilaterale e via discorrendo. Sono deduzioni capaci di suggestionare e convincere una particolare tipologia di utenti del web, un’ampia percentuale dell’opinione pubblica internauta, forse perché quel genere di tesi sembra corrispondere alla realtà delle cose. Sembra, ma la realtà non è mai (o quasi mai) come risulta dalle circostanze apparenti.
Di norma, le insinuazioni dietrologiche attingono a fonti di natura fascista o cripto-fascista, piuttosto che fascio-comunista o “rosso-bruna”, come si usa dire oggi. Infatti, tali argomentazioni sono promosse soprattutto da parte di soggetti e formazioni politiche che si richiamano palesemente all’ideologia fascista e leghista. Tuttavia, nell’attuale fase storica, la confusione ideologica è talmente sovrana che simili illazioni finiscono per riscuotere simpatie persino a sinistra, in ambienti e movimenti politici che dichiarano di ispirarsi alla storia e alla cultura della cosiddetta “sinistra antagonista”.
Probabilmente, la “misteriosa” ragione che consente di spiegare il successo di simili teorie, risiede nell’immediatezza e nella facilità di comprensione che discendono dal loro carattere riduttivo e semplicistico. Non a caso, tali asserzioni si limitano a cogliere e denunciare solo i momenti esterni dei fenomeni, ma non riescono a penetrare in profondità, non vanno a ricercare le cause ultime, per scoprire l’origine dei processi. Al contrario, la visione dialettica, organica e totale, propria del materialismo storico anche in versione volgare, suggerisce di esplorare al di là delle manifestazioni esteriori, oltrepassando la fenomenologia superficiale, cioè i dati e gli aspetti epifenomenici, per desumere le contraddizioni strutturali che si riparano sotto un cumulo di orpelli e artifizi apparenti e che rappresentano le cause reali di un fenomeno storicamente determinato.
Riprendendo il tema iniziale, che concerne la crisi economica in corso, il pensiero di provenienza marxista non pretende affatto di porsi in termini esaustivi o definitivi, ma è in ogni caso superiore, sia intellettualmente che scientificamente, dialetticamente e qualitativamente, rispetto ai comodi stereotipi, alle banali percezioni e persuasioni comuni, alle teorie complottistiche di matrice para-fascista o cripto-fascista, e rispetto altresì alle idee ufficialmente accettate e sponsorizzate dalle élite capitaliste. L’analisi marxista non si accontenta di registrare ed esaminare i fenomeni superficiali, ma investiga a fondo i processi, per estrapolare le radici profonde e sviscerare le effettive dinamiche delle crisi capitalistiche, che costituiscono un elemento storico ricorrente. In tal senso, muovendo da informazioni e indizi rilevati costantemente, l’interpretazione marxista permette ed impone di indagare in profondità i devastanti fenomeni di crisi che sconvolgono periodicamente il sistema capitalista, fornendo una versione estremamente attendibile, rigorosa e razionale, che è senza dubbio più vicina e rispondente alla realtà rispetto alle varie concezioni pseudo-scientifiche, ai numerosi luoghi comuni, alle vulgate nazional-popolari e alle ottuse dietrologie propagandate dalla feccia fascistoide.
Provo a ricostruire, se possibile, in una sintesi sommaria, inevitabilmente semplificata, le linee essenziali dell’analisi marxista (ma sarebbe più corretto dire marxiana) delle crisi capitaliste. A partire dalla tendenza intrinsecamente e peculiarmente capitalistica, cioè la tendenza alla sovrapproduzione e al sottoconsumo, al crollo periodico del saggio di profitto. Si tratta di una poderosa e imponente teoria scientifica esposta nel Capitale di Marx e basata, com’è noto, sul metodo dialettico e sulla filosofia storico-materialista.
L’impianto teorico-scientifico di scuola marxista, più esattamente di impronta marxiana, utile a comprendere e spiegare anche l’odierna crisi capitalistica, procede a rilevare e investigare un complesso di fatti significativi e cicli storici ricorrenti, che possono configurarsi come “leggi”, da intendersi in chiave non meccanicistica, né deterministica, bensì in un’ottica dialettica che comprende la totalità delle contraddizioni immanenti nella realtà storica, tra cui il fenomeno più frequente e rilevante è costituito senza dubbio dalla cosiddetta “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Il saggio di profitto è semplicemente il valore medio che si può dedurre dall’insieme degli utili capitalistici individuali. E’ la stessa concorrenza tra i singoli capitalisti che finisce per ottenere un risultato che è opposto alle intenzioni, perciò invece di aumentare, i profitti crollano. Si evince che l’eventualità della crisi è insita nell’anarchia strutturale che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Per tale ragione i profitti e, di conseguenza, i salari, tendono a diminuire, quantomeno in termini relativi, ovvero in rapporto con l’inflazione, e non come valore monetario nominale, vale a dire in termini di valore assoluto. Ma la causa ultima delle crisi che investono periodicamente l’economia capitalista, risiede nell’impoverimento progressivo dei lavoratori, i quali formano la massa dei consumatori.
La radice nascosta delle crisi capitalistiche affonda nel problema del sottoconsumo, cioè nella contrazione crescente dei consumi di massa, un elemento che agisce in aperto contrasto con la tendenza del mercato ad estendere il bacino dei consumatori. Pertanto, anche l’attuale crisi è stata generata da fenomeni di sovrapproduzione e sottoconsumo, che si ripetono ciclicamente nella storia del capitalismo moderno. In altri termini, tutto ciò significa che il modo di produzione capitalistico, concepito tout court, al di là dei rivestimenti e delle manifestazioni esteriori, o delle forme organizzative, a prescindere dalla fenomenologia superficiale, racchiude in sé le cause latenti della crisi in corso, come di quelle precedenti. Cause che si annidano in profondità, nelle disfunzioni e nelle incongruenze irrazionali e di ordine strutturale, in quanto connaturate al sistema stesso.
L’unica alternativa per scongiurare eventuali scenari catastrofici, è quella di una fuoriuscita globale e definitiva da un capitalismo destinato al collasso. Ciò significa restituire valore al lavoro collettivo, rilanciando la centralità del lavoro produttivo in un assetto di autogestione dei lavoratori. Non basta appropriarsi dei mezzi produttivi, né rovesciare il quadro dei rapporti di forza vigenti, ma occorre rivoluzionare il modo di organizzare e gestire la produzione stessa. Le aziende capitaliste sono nate per ricavare profitti privati, non per soddisfare le istanze vitali delle persone. E’ la loro natura intrinseca ad essere viziata. Perciò, bisogna riconvertire le imprese alla produzione di beni di prima necessità, cosicché il valore d’uso recuperi il suo antico primato sul valore di scambio, e l’autoconsumo delle unità produttive locali, politicamente autogestite in termini di democrazia diretta, si imponga sulle false esigenze consumistiche indotte dal mercato, evitando di subordinare i bisogni umani alle aride e spietate leggi del profitto.
Lucio Garofalo

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